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ROMITA
E' una storia singolare che, in parte, mi è stata raccontata da una simpatica signora di Rotzo, novantunenne Stefani Maria ved. Cunico, su suggerimento del figlio Lauro con lei convivente. Altre notizie in merito mi sono state fornite da una mia cognata Dal Pozzo Caterina Rafel, ottantanovenne, che abita nella mia frazione di Castelletto di Rotzo. In difetto, però, dei dati anagrafici, sono salito in Comune e qui, dopo attenta ricerca, ho trovato la pagina riguardante la signorina Maria Romita, che recita: " Toniazzo Maria fu Pietro e fu Costa Maria, nata a Rotzo il 07.06.1847 e morta a Stradella (PV) il 06.03.1928- Filatrice di canapa - unica in famiglia". Il cognome della suddetta non è di Rotzo, al contrario della madre, per cui si presume che il padre sia qui emigrato da qualche paese del Friuli o giù di lì e che poi si sia sposato a Rotzo, stabilendo qui la sua residenza. Del resto, fatti del genere ne sono avvenuti anche dopo le due guerre mondiali. Fin qui, niente di anormale. Ciò che stuzzica la curiosità e rende la cosa interessante, per non dire affascinante, è il fatto che, diversi anni prima del 1° conflitto mondiale, troviamo la signorina Toniazzo Maria tutta sola in un baito di sua proprietà vicino ad una sorgente di acqua limpidissima che sgorga dalla montagna a più di 100 metri sopra la contrada Valle, dove era nata e dove prima abitava con i genitori. Le cause possono essere state diverse. Forse un motivo valido può essere stato il possesso lassù di un baito in buon stato con attorno alcuni piccoli appezzamenti di terreno coltivabile e soprattutto la vicinanza dell'acqua sorgente. La sorgente era ed è protetta da un manufatto in pietra, tuttora ben conservato, alto 2 metri, largo e profondo 3 metri, incassato un po' nel monte, con tetto spiovente in lastre di pietra. Sul davanti, una finestra da cui esce l'acqua che riempie 2 vaschette: una interna ed una esterna e poi corre lungo la valle detta del Pach. Sappiamo infatti che prima del 1914, anno durante il quale fu ultimata la costruzione dell'acquedotto comunale, la gente attingeva l'acqua da bere e per cucinare dai pozzi scavati nei luoghi dove l'uomo, con la sua esperienza ed il suo intuito, aveva avvertito la presenza della preziosa bevanda. Ed ora cerchiamo di appagare la nostra curiosità salendo l'aspra mulattiera ed entrando, con la fantasia, nel baito della Maria Romita per vedere come era e come viveva. In questo ci assiste la testimonianza delle due signore che abbiamo all'inizio citato, le quali, quando in età scolare, di Domenica, andavano alla dottrina cristiana, non vedevano l'ora che finisse la lezione per correre alla fontana della Romita per dissetarsi a quell'acqua fresca e pura che sgorgava dalla montagna. Le bambine. Dicevo, che salivano lassù per dissetarsi, entravano poi nel baito dove viveva la signora Romita (abbreviato di eremita), scambiando qualche frase con la stessa, osservando poi, con curiosità tutta femminile, l'ambiente e tutto ciò che conteneva. Era una donna piuttosto anziana, alta, snella, occhi neri tristi e penetranti, vestita come le nostre nonne, sempre di nero, con gonne lunghe. Però era gentile con le bambine che volevano vedere tutto nel baito. In un angolo della cucina, il camino con gli attrezzi necessari per cucinare, di fianco, il secchiaio in pietra con l'occorrente per appendere i secchio di rame smaltato per l'acqua, che, nella bella stagione, faceva entrare sotto il secchiaio in una vaschetta di pietra rossa con un sistema di spole da lei inventato. In un angolo, di fronte all'ingresso, dietro un divisorio in legno, belava una capretta che le dava il latte con cui si faceva degli ottimi formaggini. La parete di fronte al camino era occupata da un telaio a mano di cui si serviva per confezionare tela di canapa che poi vendeva. Filava, riparava ombrelli ed oggetti di cucina per la gente del paese. Era, come si dice, un'autentica factotum. Ogni tanto, scendeva in paese per consegnare gli oggetti riparati o per andare ad Arsiero, a piedi, per acquistare l'occorrente per la filatura. Tutto ciò non le impediva di coltivare i piccoli appezzamenti di terra davanti e dietro l'abitazione, che le davano i prodotti di cui abitualmente si ciba la gente di montagna. Ma un giorno di Maggio 1916, anche lei dovette partire profuga, come gli altri abitanti del paese e si rifugiò a Stradella, provincia di Pavia, dove morì nel 1928 all'età di 81 anni.